La reazione prodotta viene definita non-enzimatica e si accomuna alla diagnosi delle patologie cardiovascolari e altre patologie associate al glucosio, come ad esempio il diabete.
La reazione non-enzimatica viene definita glicosilazione e serve alla diagnosi del diabete di tipo 1. questo procedimento fu messo a punto nel 1968 dai ricercatori Gallop e Bookchin, e poi usato l’anno successivo per determinare la presenza di diabete da Rahbar ma fu solo sei anni più tardi che Bunn portò il processo alla sua attuale struttura, poi proposta come protocollo nel 1976 da Koening e Cerami.
Il processo dell’emoglobina glicosilata
Il processo di reazione che porta all’emoglobina glicosilata viene attuato in quanto, un’eccessiva presenza di questo tipo di emoglobina, rivela uno stato diabetico serio, a differenza di malati di diabete sotto controllo terapico e naturalmente dei soggetti sani. I globuli rossi, che vivono 4 mesi prima di essere rigenerati, contengono l’emoglobina glicosilata che nella quantità riscontrata negli esami, determina quella che è la media nella vita della cellula.
La misurazione dei valori dell’emoglobina glicosilata è di ottimo aiuto per determinare se una specifica terapia contro il diabetico sta ottenendo dei buoni risultati nel monitoraggio periodico di quattro settimane, attraverso il glugosio sierico. Il ciclo di quattro settimane viene però messo in discussione da alcune ricerche che lo ritengono troppo lungo.
I metodi di misurazione dell’emoglobina glicosilata tre tipi di test: l’immunoassay, l’high-performance liquidi chromotography con l’acronimo HPLC, e il boronate affinity chromatography. Quest’ultimo e l’immunoassay possono essere sviluppati anche negli ambulatori e nelle farmacie specializzate, mentre l’HPLC, ma anche l’immunoassay, sono eseguibili in laboratorio di analisi.
I test servono a stabilire il rapporto tra emoglobina totale e quella glicosilata in modo da conoscere quale sia la misura quantitativa del glucosio nell’arco dei tre mesi che precedono uno dei test sopra menzionati. Viene tenuta quindi in grande considerazione, dai medici, l’analisi dell’emoglobina glicosilata, per avere dei responsi utili alle informazioni necessarie. Si tratta di un quantitativo di dati importanti, che il medico deve valutare per ottenere un quadro clinico preciso.
Essendo un rapporto tra emoglobina totale ed emoglobina glicosilata, il valore risultante dai test viene indicato in termini di percentuale, che per persone sane è del 5%. Le persone malate di diabete che seguono una buona terapia invece, segnano valori attorno al 7%, mentre per i valori che si avvicinano al 10%, i pazienti vengono considerati ad alto rischio. Questi devono sicuramente migliorare questo rapporto, considerando che i soggetti che riescono a mantenerlo attorno al 7%, aumentano notevolmente le loro aspettative di una vita “normale” e senza complicazioni mediche. Quando il valore supera l’8%, il medico deve cambiare terapia, in quanto quella praticata non si è chiaramente dimostrata efficacie.
L’analisi dei valori
Come detto, il valore percentuale ottenuto dai test, è molto indicativo per il tipo di terapia da seguire e la sua efficacia. Certamente le abitudini alimentari e comportamentali dei pazienti incidono seriamente sui valori dell’emoglobina glicosilata.
I medici ritengono infatti che un aumento dei valori del HbA1c non possa dipendere solo dal tipo di terapia, ma servono dei comportamenti sbagliati per segnare un aumento repentino. Va quindi considerata l’alimentazione, ma anche lo stress e il peso corporeo, con particolare attenzione verso gli obesi. In considerazione sono anche l’attività fisica, importante per il diabete, e recenti episodi di infezioni del corpo.
Questo quadro generale è fondamentale per il futuro del paziente, che grazie alla misurazione dell’emoglobina glicosilata può evidenziare le problematiche e intervenire tempestivamente al fine di evitare complicazioni, portando delle modifiche nel proprio stile di vita, evidentemente non consono al suo quadro clinico.