C’è un fattore di rischio dell’infarto che viene sottovalutato: uno studio si occuperà di capirne la correlazione per migliorare la prevenzione
L’infarto è tra le malattie cardiovascolari più diffuse, quelle che rappresentano la prima causa di morte nel mondo occidentale, e anche in Italia. Ogni anno nel nostro Paese circa 160 mila persone, tra i 35 e i 64 anni, sono colpiti da un infarto con una maggiore frequenza negli uomini.
Tre almeno i fattori di rischio che si presentano anche se oggi nell’80% dei casi è possibile evitare il decesso. È con la prevenzione che si fa la differenza e facendo attenzione ai sintomi ci si può salvare. Vediamo nel dettaglio a cosa ci riferiamo.
Come spesso ci viene spiegato dagli specialisti i campanelli d’allarme che il nostro corpo ci manda quando qualcosa non va non vanno sottovalutati. E questo vale anche nel caso dell’infarto. Secondo gli ultimi dati una persona su tre soffre di malattie cardiovascolari, campanelli di allarme che vanno ascoltati e attenzionati.
Tra questi c’è lo scompenso cardiaco che secondi gli studi fatti, nella maggior parte dei casi non viene mai preso in considerazione. Che correlazione c’è, dunque, tra scompenso cardiaco ed infarto?
Proverà a dare una risposta il progetto Dorian Gray dell’Ue grazie ad una iniziativa guidata dall’Università di Brescia che insieme a diversi partner, come ad esempio la Società Europea di Cardiologia (ESC), e ad un sostegno economico di 11 milioni di euro, per cinque anni si occuperà di attenzionare la questione.
Si partirà dunque dallo scompenso cardiaco per capire che correlazione ci sia con l’infarto e come la patologia rappresenti un primo campanello d’allarme.
Del resto, ricorda il coordinatore scientifico di Dorian Gray, Riccardo Proietti dell’Università di Liverpool, per anni “la malattia di Alzheimer e la demenza cerebrovascolare sono state considerate entità separate” mentre le ultime ricerche “suggeriscono che potrebbero rappresentare un continuum”. Lo stesso sarà fatto con scompenso cardiaco e infarto.
Gli studi acquisiranno i dati da diverse fonti, anche quelle fornite dai device di ultima generazione come smartwatch, smartphone, tablet, sfruttando l’intelligenza artificiale e l’uso di variabili cliniche che permetteranno il trattamento personalizzato e la stratificazione del rischio.
“Le malattie cardiovascolari non solo condividono i fattori di rischio con il deterioramento cognitivo – ha spiegato ancora Proietti – ma possono anche contribuirvi, attraverso meccanismi come ipoperfusione cronica, infarti e rigidità arteriosa”. Al momento però non c’è una teoria unificante e dunque occorrono maggiori e più affidabili dati che consentano di effettuare una diagnosi precoce e non solo.
Si questo si occuperà il Dorian Gray che punta a “sviluppare un’ipotesi basata sulla neurobiologia che colleghi MCI e malattie cardiovascolari, utilizzando biomarcatori per la valutazione clinica” ha concluso Proietti, un modo per poter effettuare una prevenzione più efficace e puntare al miglioramento cognitivo.