C’è un nuovo studio sull’Alzheimer che può dare informazioni nuove sulla malattia e sulla predisposizione; ecco tutti i dettagli.
Il morbo di Alzheimer è una condizione caratterizzata dalla progressiva perdita delle funzioni mentali. Si attiva una degenerazione del tessuto cerebrale con un accumulo di una proteina anomala e la perdita di cellule nervose fondamentali. Anche chi vive accanto ad un malato di questa patologia soffre tanto e ogni scoperta e ogni studio possono fare la differenza. Oggi c’è un nuovo studio sull’Alzheimer che merita molta attenzione.
Questa nuova ricerca è tutta italiana e ci permette di fare dei passi in più sulla prevenzione e sull’individuare chi potrebbe essere a rischio e chi no. Le malattie neurodegenerative sono molto complesse da esaminare e da indentificare nei dettagli. È molto importante che la ricerca prosegua in questo settore. Ma vediamo che cosa dice questo nuovo studio e gli autori che lo hanno eseguito.
Facciamo una piccola premessa e analizziamo che cosa comporta questa malattia. L’abbiamo descritta in modo scientifico all’inizio di questo articolo e abbiamo analizzato che cosa succede concretamente al cervello. Ma alla persona che cosa accade nella vita di tutti i giorni? I primi sintomi, ad esempio, che si manifestano sono la perdita di memoria e i disturbi nel linguaggio.
Ancora, sopraggiungono momenti di confusione perdita dell’orientamento. Il comportamento della persona affetta cambia e ci sono continui sbalzi di umore. Con il progredire della malattia la persona non riesce più a muoversi e ad orientarsi, non riconosce più le persone o i luoghi.
L’Alzheimer si presenta maggiormente in età senile e, dopo la diagnosi, si ha un’aspettativa di vita che può andare dai 3 ai 10 anni. Ma questo dipende molto dall’andamento della malattia. Quando si arriva alla fase finale, dove il corpo non si muove più, allora in quel caso l’aspettativa è di 6-8 mesi di vita.
Il progetto si chiama Interceptor ed è uno studio italiano che nasce nel 2016 in risposta alla possibile approvazione del primo farmaco contro l’amiloide. Questo ad opera, ovviamente, della Food and Drug Administration, l’ente che regola l’uso e il consumo dei farmaci. L’amiloide è la proteina che si accumula nel cervello e viene considerata una delle cause dell’Alzheimer.
Questo studio, finanziato dall’AIFA e coordinato dalla Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, ha presentato i risultati presso l’Istituto Superiore di Sanità. Il responsabile è Paolo Maria Rossini, attuale responsabile del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele di Roma. Le ricerche hanno messo in luce quali sono i marcatori biologici che possono indicare la predisposizione e il rischio di Alzheimer. Gli esami permetterebbero di intervenire precocemente per rallentare l’insorgenza della malattia in modo interventistico non terapeutico.
Tra i biomarcatori usati ci sono: EEG per connettività, RM volumetrica, FDG-PET, test neuropsicologico, test genetico (ApoE4), test su liquor (p-tau e A1-42/p-tau). Se da questi esami c’è un evidente rischio della malattia si può intervenire con dei farmaci in uno stadio molto precoce e ritardare di molto il processo di inizio dell’Alzheimer.
Purtroppo, le malattie degenerative continuano ad essere un enorme ostacolo per la medicina, ma gli studi continuano senza sosta e le cure migliorano giorno dopo giorno. Moltissime persone mostrano una degenerazione cognitiva lieve sulla quale si può intervenire. Queste conclusioni sono fondamentali e i ricercatori continueranno a fare test ed esperimenti.