Ho avuto una soffiata, ho scoperto dove vanno a finire i vestiti che buttiamo nei cassonetti: la verità è da brividi

Un lungo viaggio di una gonna frutto della fast fashion finisce dove non era in programma che arrivasse: scopriamo il viaggio. 

Fast fashion vestiti a tempo
Il greenwashing della fast fashion: ecco il volto oscuro (Inran.it)

Tutto il mondo dei media parla della situazione ambientale, anche se molti sembrano chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie. Come in una bolla vivono senza sentire e capire cosa sta succedendo e cosa, spesso, provocano loro stessi. Un intero sistema, oggi è tra i più inquinanti dell’impianto industriale, che sta mettendo in ginocchio tutto il mondo e i suoi ecosistemi: l’industria tessile. Non si parla di semplici vestiti, di semplici produzione, si parla dell’enorme fenomeno della Fast Fashion.

Fast fashion e abiti riciclati: ecco il loro lungo viaggio

Vestiti come rifiuto
Fast fashion: ecco cosa nascondono i grandi marchi (Inran.it)

La fast fashion sta uccidendo il pianeta.
Dirlo in questi termini rischia di essere troppo duro e forse troppo di impatto, ma è un dato di fatto. La produzione incontrollata e veloce per rispondere dell’esigenza di una società economica che pretende tutto e subito, sta portando il pianeta al collasso. Il 20% dell’inquinamento idrico mondiale dell’acqua potabile è causato dall’industria tessile, richiedendo acqua dolce per la produzione tessile. Tintura, finitura e, soprattutto, lavaggio dei capi sintetici. Questi ultimi rilasciano ogni anno 0,5 tonnellate di microfibre nei mari che entrano nella catena alimentare.

Microfibre e microplastiche che hanno invaso l’ecosistema e che troviamo in ogni parte del pianeta, dal fondo degli oceani sino alle vette più alte delle montagne del mondo, arrivando a trovarne tracce importanti nella placenta di una donna incinta. In questo schema è presente, inoltre, un enorme sfruttamento del mondo del lavoro dei paesi più poveri e che non presentano leggi sul lavoro valide. Insomma, uno schema generale che ci permette di capire dove nascono e come arrivano a noi i capi di marche come H&M o Primark. Ma se volessimo parlare dei capi come rifiuto?

I rifiuti della fast fashion: cosa succede ai capi dati al “riciclo”

I rifiuti prodotti dalla fast fashion sono un altro importante ramo di inquinamento che è sfuggito di mano a molti paesi. La produzione in quantità così alte e a costi così bassi è parte di un meccanismo che porta il consumista a consumare e cambiare, quindi comprare e gettare. Il greenwashing che abbiamo visto di molte marche che andremo a citare, ci racconta una storia falsata del viaggio che intraprendono i tantissimi vestiti che diventano rifiuto. Solo l’1%, infatti, dei vestiti che vengono gettati viene riutilizzato per produrre altri vestiti.

Questo succede sia per negligenza sia per l’utilizzo di alcuni materiali. Infatti materiali come il poliestere, prodotto che abbiamo dal riciclo delle bottiglie di plastica, non appena viene gettato non è possibile riciclarlo e deve, obbligatoriamente, finire in discarica. Altri materiali sono riciclabili, come il viscoso o il cotton green, ma hanno un impatto sull’ambiente molto importante. Nonostante il grosso impatto i capi non vengono comunque riciclati, nonostante quello che molte aziende del mondo della fast fashion ci raccontano.

Riciclo e riutilizzo: le bugie della fast fashion

Greenwashing
Fast fashion: le parole delle aziende in cerca di greenwashing (Inran.it)

Siamo davanti un ennesimo caso di greenwashing che Greenpeace e Changing Markets Fondation sono riusciti a scoprire. La prima ONG ha presentato dei dati che lasciamo a vostra disposizione (Vedi link sull’1%), ma oggi ci soffermiamo su un lavoro più “giovane” della Changing Markets Fondation. Un lavoro che conferma le parole di Greenpeace e che sottolinea come il sistema che esiste dietro il mondo della fast fashion è tossico sia per l’ambiente che per noi stessi.

La ricerca che è stata svolta ci porta davanti i box di riciclaggio presenti nelle grandi marche della fast fashion nei quali è possibile lasciare i vecchi capi. Secondo parole, poi dimostratesi non vere, di molte aziende, il capo verrà riciclato e riutilizzato. Ecco quindi che è iniziato un lavoro di ricerca che si è concluso in maniera tragica quando una gonna lasciata in uno dei box di H&M è finita gettata in una discarica in Mali, in Africa.

L’inchiesta di Changing Markets Fondation: ecco i dati

Sono stati 21 i capi che l’ONG olandese ha donato ai box delle grandi marche quali H&M, Zara, C&A, Primark, Nike, The North Face, Uniqlo e M&S. Solo un quarto, 5 su 21, di questi prodotti ha avuto una seconda vita, come pubblicizzato a tutti questi nomi, mentre tutti gli altri capi sono finiti bruciati o gettati in varie parti del mondo. Per riuscire nell’impresa l’ONG Changing Markets Fondation ha utilizzato gli AirTag di Apple per rintracciare i suddetti capi. Così facendo hanno potuto seguire il lungo viaggio che molti di questi vestiti hanno vissuto.

25mila km per una gonna, da Londra fino agli Emirati Uniti, arrivando in Mali, dove è stata gettata in una discarica. Tanti altri capi sono stati abbandonati, invece, in magazzini chiusi e isolati, mentre altri, come i pantaloni da jogging sono stati bruciati. Utilizzati come combustibile in una cementeria in Germania. Un sistema che si nasconde un ottimo sistema di comunicazione e di greenwashing che vuole salvare nomi come H&M, nonostante il viaggio della gonna, o C&A, nonostante i pantaloni bruciati partiti dal suo box.

La verità sul mondo della fast fashion: il danno ambientale

Il costo della fast fashion
La fast fashion: ecco cosa succede veramente ai capi riciclati (Inran.it)

Le promesse fatte da H&M, C&A e Primark sono l’ennesimo trucco di greenwashing per i clienti.” spiega Urska Trunk, responsabile della campagna di Changing Markets “La nostra indagine suggerisce che gli articoli in perfette condizioni vengono per lo più distrutti, bloccati nel sistema o spediti in tutto il mondo nei paesi che sono meno in grado di gestire i tanti indumenti usati provenienti dall’Europa. Gli schemi aggiungono offrendo ai clienti buoni, sconti o punti per acquistare più vestiti, amplificando il modello di fast fashion che trabocca di rifiuti” 

Una pratica che alimenta lo stesso marchio che mette a disposizione queste box. Spesso, chi consegnano i capi e si ricevono buoni sconto per nuovi acquisti, incentivando così il consumo e alimentando ulteriormente il business delle stesse marche. Uno schema che si auto alimenta e cerca di vendere comunicando della sua etica ecologica, pur non essendo vera.

Il greenwashing: ecco i marchi della fast fashion

Uno schema che abbiamo visto come il capo sia arrivato in Mali, ma non è l’unica tratta. Esistono nel mondo situazioni molto gravi e che sono alimentate proprio da questa situazione. Fra le catastrofi ambientali più famose troviamo la discarica di Atacama, in Cile. Una immensa discarica di capi usati e collezioni invendute, frutto della fast fashion. In arrivo al porto di Iquique, arrivano fino al deserto e li vengono scaricati. Una enorme discarica abusiva, luogo di roghi e di inquinamento che nasce da un vuoto normativo dello stato del Cile. Nella legislazione cilena, infatti, non viene riconosciuto il materiale tessile come rifiuto, quindi non può costituire, legalmente, una discarica.

L’Unione Europea ha ben riconosciuto questo grande problema ambientale, tanto da avviare una serie di provvedimenti che posiamo trovare nel Green Deal. Si parla di regolarizzare il mercato europeo, con l’obiettivo di riuscire a realizzare un’economica circolare. Questo obiettivo deve essere raggiunto, secondo le direttive dell’UE approvate a settembre 2023, attraverso 4 ambiti di intervento: ecodesign, requisiti minimi ecologici; tracciabilità della filieraresponsabilità estesa del produttore; commercio dei prodotti che sarà promosso attraverso gli accordi commerciali UE.

Fast Fashion: la lotta dell’Unione Europea

Atacama discarica
Dalle discariche di Atacama: ecco il viaggio dei capi della fast fashion (Inran.it)

Urska Trunk commenta così i vari interventi dell’Unione EuropeaLe norme dell’UE sono un’opportunità d’oro per migliorare i programmi di ritiro in tutta Europa. […]. Dovrebbero fissare obiettivi vincolanti di riciclaggio e riutilizzo per porre fine al tipo di maltrattamento dei capi scoperto dalla nostra indagine e concordare un’elevata tariffa di fine vita sui vestiti. Poiché il fast fashion è dipendente da fibre economiche a base di plastica, dovrebbe anche tassare quelle fibre”

Sicuramente il ruolo dell’Unione Europea è essenziale in questa lotta che costituisce la salvaguardi dell’ambiente. Una lotta che, però, non dovrebbe estraniarci nell’idea che la scelta sostenibile deve e può farla solo la grande azienda. La verità è che un individuo può molto meno di una comunità che sceglie e decide in maniera consapevole, cosciente di tutti i dati e le informazioni sul tema. Questa società ci ha insegnato la comodità di un mondo economico “fast“, ma sta presentando dei limiti che noi stessi dovremmo decidere di combattere ogni giorno.

Lorenzo Angelini

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