Meno bambini significa interi settori che subiranno un duro tracollo: la chiave è sempre il lavoro affinché si costruiscano nuove famiglie
L’economia ha sempre dato molta attenzione alla demografia. Lo studio di un Paese e la sua gestione non può prescindere dal numero delle persone che compongono la nazione, che in essa sono attive, lavorano, produco e consumano. Insomma, natalità ed economia sono sempre correlati e l’una influenza l’altra.
Già alla fine del Settecento, quando la cosiddetta Prima rivoluzione industriale era in corso, Thomas Malthus, professore di economia politica, con le sue teorie aveva spiegato che le risorse agricole disponibili, che hanno una tendenza a crescere linearmente nel tempo per via del progresso tecnologico, non erano in grado di soddisfare le esigenze della crescita della popolazione mondiale. Questa ha un andamento esponenziale ed inevitabilmente ci sarebbero stati periodi di carestie.
Dunque come evitare ciò? Malthus suggeriva l’applicazione di un controllo delle nascite poiché non ci sarebbero state risorse per tutti. Idee, queste, che fanno venire in mente la Cina che nel 1979 ha adottato la politica del figlio unico, abbandonata solo nel 2016.
Nel rapporto natalità-economia sono da citare altre due teorie degne di nota. Quella di Robert Solow del 1956 che metteva in guarda come un crescente aumento della popolazione avrebbe significato avere un inefficiente capitale fisico (quindi macchinari e diverse attrezzature) e che ci sarebbe stata troppa dipendenza dal fattore lavoro con effetti negativa sull’economia.
Invece nel 1999 Gary Becker, al contrario, realizzò la teoria dell’investimento in capitale umano: in pratica in economie urbane ad alto reddito più cresce la popolazione e maggiore sarà la specializzazione per le economie di scala e scopo come effetto del fatto che diversi esseri pensanti lavorano insieme.
Se nell’Europa post-bellica e fino allo shock petrolifero del 1973 la crescita della popolazione fu esponenziale e salutata positivamente, uno degli aspetti di quel tempo fu il consumismo che ha eroso le risorse, continuando ancora oggi.
Ormai in tanti Paesi industrializzati la piramide demografica si è quasi invertita e gli anziani sono più dei bambini. Se il fenomeno è quasi naturale poiché in tanti non vivono più in campagna dove i bambini con meno di 10 anni già lavoravano e adesso anche le donne avviano carriere lavorative e a differenze delle loro nonne sono alfabetizzate e non si occupano solo delle cura di almeno 4-5 figli, in Italia si sommano altri problemi.
Il nostro Paese è sempre più vecchio anche perché si esce dalla casa dei genitori sempre più tardi e la famiglia viene costruita difficilmente prima dei 30 anni. Il motivo principale è ovviamente il lavoro che manca, è sottopagato o è precario.
I danni economici della denatalità sono devastanti. Meno persone nascono e meno domanda interna c’è con conseguente perdita degli effetti delle economie di scala, della profittabilità e quindi dell’ammontare degli investimenti delle aziende che si occupano in modo particolare del mercato domestico.
Una popolazione composta da tanti anziani e pochi bambini porterà a enormi problemi e una volta che avranno intaccato il sistema-Paese, difficilmente potranno essere risolti. Oggi sanità e pensioni costituiscono una grossa fetta del bilancio pubblico e ciò per ovvi motivi è destinata a crescere. Molte attività economiche che riguardano un popolo che se non vogliamo definirlo giovanile possiamo chiamarlo attivo, saranno costrette a scomparire.
Un tracollo ci sarà nel settore scuola perché pochi saranno i bambini iscritti. Chi sosterà gli anziani nei servizi a loro necessari? Chi comprerà le auto? Chi userà le infrastrutture che avranno anche bisogno di manutenzione ma senza le persone che lavoreranno (perché molti saranno pensionati) non ci saranno soldi per sostenere questi costi?
La denatalità è una bomba prossima allo scoppio e se la politica non interviene seriamente e immediatamente con vere politiche occupazionali, il futuro sarà catastrofico.