L’American College of Cardiology (ACC), l’American Heart Association (AHA) e la Heart Failure Society of America (HFSA) hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che invita i ricercatori a colmare alcune lacune nella nostra comprensione del rischio COVID-19.
Più specificamente, l’ACC, l’AHA e l’HFSA hanno sottolineato la necessità di chiarire se le persone che hanno assunto farmaci antipertensivi – cioè i farmaci che aiutano ad abbassare la pressione sanguigna – sono a più alto rischio di sviluppare il COVID-19 o di sperimentare una forma grave della malattia.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si stima che 1,13 miliardi di persone in tutto il mondo abbiano la pressione alta (ipertensione), che i farmaci antipertensivi possono aiutare a controllare. Se ci fossero indicazioni che tali farmaci potrebbero contribuire al rischio di sviluppare COVID-19 o causare una forma grave della malattia, questo sarebbe profondamente preoccupante per i professionisti medici di tutto il mondo.
Ebbene, gli analisti della NYU Grossman School of Medicine di New York City e delle istituzioni che collaborano, hanno condotto uno studio che mirava a risolvere questo problema. La ricerca – che ora appare sul New England Journal of Medicine – trae una conclusione rassicurante: non c’è alcuna associazione tra i comuni farmaci per la pressione sanguigna inclusi nello studio e il rischio di COVID-19.
Nel loro studio, i ricercatori si sono concentrati su una classe di farmaci chiamati inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone. In particolare, hanno esaminato gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE), i bloccanti del recettore dell’angiotensina, i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti e i diuretici tiazidici.
I ricercatori si erano interrogati sul potenziale effetto degli ACE inibitori sul rischio COVID-19 perché interagiscono con la proteina ACE2, che è coinvolta nella regolazione della pressione sanguigna. Tuttavia, recenti indagini hanno anche dimostrato che l’ACE2 media anche l’ingresso della SARS-CoV-2 nelle cellule polmonari, portando alla loro infezione. Questo ha spinto gli scienziati a chiedersi se le persone affette da ipertensione possano avere un rischio maggiore di COVID-19. Nel recente studio, i ricercatori hanno valutato i dati di 12.594 individui che sono stati sottoposti a test per la COVID-19. Di questi, 5.894 (46,8%) sono risultati positivi. Di quelli che sono risultati positivi, 1.002 (17%) hanno sperimentato una forma grave della malattia.
Guardando la storia medica dei partecipanti, i ricercatori hanno scoperto che 4.357 avevano anche l’ipertensione. Di questi, 2.573 sono risultati positivi al COVID-19, e di questi, 634 hanno manifestato sintomi gravi.
Tuttavia, nel valutare i potenziali legami tra la storia dei farmaci e la probabilità di risultare positivi al COVID-19, i ricercatori hanno trovato “nessuna associazione tra una singola classe di farmaci [antipertensivi] e una maggiore probabilità di un test positivo”. Inoltre, gli investigatori scrivono che nessuno dei farmaci per la pressione sanguigna che hanno testato era legato a un aumento significativo del rischio di sperimentare gravi COVID-19.
Nel periodico report dell’Istituto Superiore di Sanità emerge un dettaglio statistico di particolare rilievo per poter analizzare la pandemia del coronavirus.
Nel nostro Paese emerge infatti come tra le vittime del virus le donne siano meno della metà degli uomini, con 601 decessi contro i 1.402 decessi dei maschi. La loro età al momento del decesso è altresì sensibilmente più alta rispetto a quella maschile, con 83,7 anni contro i 79,5 anni degli uomini. Ancora, il dossier Iss sostiene che i morti sotto i 50 anni siano 17, e siano solamente 5 quelli sotto i 40 anni, pur affetti da gravi patologie precedenti.
In aggiunta a quanto sopra, l’indagine indica che la trasmissione dell’infezione è avvenuta in Italia in tutti i casi, con la sola eccezione dei primi tre segnalati nel Lazio. L’età media dei pazienti positivi e deceduti è di oltre 15 anni superiore rispetto a quella di coloro che hanno solo contratto l’infezione.
Infine, per quanto concerne le complicazioni più frequentemente legate al virus, il 97,2% dei casi vede insufficienza respiratoria, davanti al 27,8% che ha subito un danno acuto ai reni, al 10,8% che ha subito danni cardiologici e, infine, al 10,2% che ha subito una sovrainfezione.
Si accelerano i tempi per la realizzazione di un vaccino contro il Covid-19. Un funzionario del National Institutes of Health ha infatti confermato che si sta svolgendo uno studio, presso il Kaiser Permanente Washington Health Research Institute di Seattle, che porterà a testare il vaccino sugli umani.
I test inizieranno su 45 giovani volontari sani, con diverse dosi sviluppate da Nih e dalla startup Moderna, una biotech del Massachussetts. Il vaccino, che si chiama mRna-1273, verrà dunque sperimentato sull’essere umano con l’obiettivo di comprendere se possa o meno mostrare effetti collaterali di rilievo, andando poi a porre le basi per ampliare i test su un più ampio campione.
Se tutto dovesse andare per il verso giusto, si potrebbe arrivare a un obiettivo che tutto il mondo sta aspettando con particolare impazienza: la disponibilità di un vaccino in soli 3-4 mesi dal suo sviluppo all’applicazione, contro i 18 – 20 mesi che furono invece necessari per la realizzazione del vaccino per la Sars.
Tuttavia, questo non significa che il vaccino sarà messo in commercio entro il 2020. I funzionari della sanità pubblica americana ricordano infatti che ci vorranno 12 – 18 mesi per convalidare ogni potenziale vaccino.